Edoardo Della Torre
La rivoluzione digitale sta impattando drasticamente sui modelli organizzativi delle aziende. In un certo senso, stiamo attraversando una fase in cui tutto quello che è stato detto e scritto per decenni sull’organizzazione aziendale viene (ri)messo in discussione. È orami evidente nel dibattito organizzativo che i modelli tradizionali di divisione del lavoro e di coordinamento delle attività non siano più in grado di offrire alle organizzazioni soluzioni adatte a cavalcare con successo i cambiamenti tecnologici in atto.
A ben guardare però, non sta accadendo niente di rivoluzionario. L’evoluzione tecnologica a cui assistiamo, pur dirompente ed esponenziale nei suoi ritmi di crescita, sta semplicemente accelerando processi di cambiamento già in atto nelle realtà organizzative più avanzate. Brevemente, possiamo ricondurre questi cambiamenti a tre dimensioni principali: la struttura, l’individuo, il gruppo.
A livello strutturale, la tecnologia abilita connessioni, accesso alle informazioni, relazioni e interazioni che superano la logica della gerarchia “da organigramma”. Senza arrivare alle forme estreme di holacracy, teal organization e quant’altro, è evidente che nelle organizzazioni moderne il patto capo-collaboratore non si regge più sui rapporti formali legati alla posizione e si apre a una ambiguità molto più sostanziale che chiama in causa aspetti di fiducia, riconoscimento, autorevolezza che emergono dal basso (dai cosiddetti “follower”) molto più che dalla posizione ricoperta. In termini di struttura, questo porta a una revisione degli assetti organizzativi tradizionali verso nuovi modelli emergenti, molto più snelli, flessibili e in un certo senso “liberi” da gerarchie predefinite.
A livello individuale, questo si traduce nel passaggio da una gestione basata su regole, procedure, sistemi rigidamente definiti di misurazione e valutazione, a stili gestionali che pongono molta più attenzione al singolo individuo, alle sue potenzialità, ai suoi bisogni di crescita e di realizzazione al di là dei confini organizzativi in cui è inserito. Il concetto di risultato viene legato agli obiettivi da raggiungere, non ai processi o alle modalità operative. Job crafting e smartworking sono oggi due mantra per qualsiasi organizzazione abbia deciso di sfruttare la rivoluzione digitale per sviluppare un vantaggio competitivo basato sulle persone (e quindi oltre la tecnologia di per sé). Il presupposto di fondo delle smart organization è che per lavorare al meglio, e quindi per essere fonte di vantaggio competitivo, le persone devono essere messe nella condizione di poter gestire il proprio lavoro con gradi di libertà molto più alti rispetto al passato. Non si tratta solo di gestire il proprio spazio e il proprio tempo in modo più autonomo, ma anche di poter sperimentare, di sbagliare, di superare i confini del task assegnato, di costruire un sistema di relazioni aperto e sviluppato intorno ai contenuti più che alla posizione.
Infine, la necessità di innovazione continua generata dagli sviluppi tecnologici rende ancora più necessaria la costruzione di team in grado di generare creatività riguardo sia alla soluzione di problemi attuali, sia soprattutto agli sviluppi futuri. Le organizzazioni hanno oggi bisogno di costruire la propria strategia coinvolgendo tutti i livelli dell’organizzazione, e in questo senso il team rappresenta la dimensione ottimale per creare vantaggio competitivo. Si tratta però di acquisire competenze nuove legate alla progettazione e gestione dei team in contesti molto meno strutturati rispetto al passato, in cui il concetto stesso di team diventa fluido, mutevole e basato sulla spontaneità.
A fronte di tali cambiamenti, si osserva nel dibattito pubblico un’attenzione ancora troppo sbilanciata a favore delle competenze tecniche legate all’intelligenza artificiale, ai big data, e in generale alle nuove tecnologie. L’enfasi è posta quasi esclusivamente sui profili professionali emergenti, come ad esempio il data scientist, il big data architect, o il digital trasformation specialist.